Come segnalato in diverse nostre circolari (da ultimo con la n. 83 del 15/12/2014), la nuova normativa prevede che sia il cliente a inviare la lettera di intenti all’Agenzia delle Entrate, mentre il fornitore deve controllare che la stessa sia stata effettivamente acquisita dal sistema. Spesso, però, ciò non è sufficiente a evitare responsabilità di chi vende beni o presta servizi senza applicare l’Iva, in presenza di una lettera d’intento ideologicamente falsa.
La Cassazione ha più volte affermato, da ultimo con la recentissima sentenza n. 4593/2015, che il fornitore deve adottare tutte le misure ragionevoli per assicurarsi di non partecipare alla frode commessa dal falso esportatore abituale, escludendo che il semplice controllo formale della regolarità della dichiarazione di intento valga a deresponsabilizzare il fornitore. La Cassazione poi stabilisce che il fornitore si espone al recupero dell’imposta e al pagamento delle sanzioni, anche in assenza di prove certe e incontrovertibili se il fisco fornisce attendibili riscontri indiziari idonei che avrebbero dovuto mettere in allarme qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto. Il fornitore dovrebbe dunque adottare prassi idonee a segnalare anormalità, rilevate le quali, è poi libero di scegliere se non fare l’operazione o esporsi (sapendolo) a possibili contestazioni.
Alcune di tali prassi possono essere le seguenti:
- Controllare l’anzianità del cliente (non può essere esportatore abituale chi non ha chiuso almeno un periodo d’imposta).
- Verificare il tipo di attività (un controllo del codice attività potrebbe indurre a dubitare della qualifica del cliente).
- Eseguire una visura al registro imprese, che potrebbe segnalare anomalie quali la mancata presentazione dei bilanci, l’assenza di unità locali o quella di dipendenti, di beni strumentali e di strutture organizzative.
- L’uso di mezzi di mezzi di pagamento anomali (quali contanti, assegni girati o circolari).