Con la riforma del diritto societario del 2003, l’articolo 2495 del Codice civile sulla cancellazione delle società ha dato origine a una serie di perplessità, sulle quali è intervenuta la Cassazione a Sezioni unite, con le sentenze 4060, 4061 e 4062 del 2010, stabilendo che la cancellazione dal registro delle imprese delle società ne determina l’estinzione, anche se ci sono creditori insoddisfatti o rapporti giuridici non ancora definiti.
Per il diritto tributario ciò ha significato che gli atti impositivi riferiti a una società estinta sono improduttivi di effetti per la società, i liquidatori, gli ex amministratori e i soci, fatto salvo quanto disposto dallo stesso articolo 2495, secondo cui i creditori insoddisfatti possono rivalersi sui soci, fino a concorrenza delle somme riscosse nel bilancio finale di liquidazione.
Questo quadro è stato profondamente modificato da Decreto “semplificazioni”, che ha stabilito che ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione, l’estinzione della società ha effetto trascorsi cinque anni dalla cancellazione dal Registro delle imprese.
Nella sostanza, un soggetto che giuridicamente è inesistente continua a vivere solo nei rapporti con il Fisco, e peraltro solo sul piano passivo (mentre, ad esempio, non ha la possibilità di chiedere rimborsi).
Inoltre, se fino ad oggi era l‘Amministrazione che doveva provare colpe o comportamenti fraudolenti di liquidatori e soci, con il nuovo provvedimento si inverte l’onere della prova, che viene così a ricadere sugli stessi liquidatori e soci.